E s p a n s i o n i
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Ciò che dovrebbe vera-mente contare risiede nel rendere abitudine: il vivere e la sperimentazione.
| Disordine funzionale |
In preda ad un attacco di nostalgia riprendo in mano un vecchio manuale di Antropologia culturale, nel quale Ugo Fabietti scrive:
« [l’antropologia] studia [..] le idee e i comportamenti che sono caratteristici degli esseri umani che vivono in società fra loro lontane nello spazio e diverse per tradizioni, costumi e stili di vita»
Da qui hanno origine i miei svalvo(la-menti).
Dal punto di vista teorico, l’antropologia considera gli atti umani come un’espressione culturale. Lo scambio mondo-soggetto è disciplinato a livello locale: l’essere umano è un artificio culturale. Questa interpretazione è peró incompleta perché non si riconosce al singolo soggetto un’agentività, dato che è essenzialmente in balia del proprio contesto culturale. Alcuni antropologi contemporanei (es. Thomas J. Csordas), danno all'essere umano un ruolo attivo. Lo scambio mondo-soggetto non è vissuto passivamente, in quanto le singole esistenze vivono il mondo attraverso il loro corpo.
Allo stato attuale delle cose, però, rimane ancora da riflettere significativamente sui concetti di “autenticità” e “spontaneità” che caratterizzano la realtà quotidiana. Se ogni cosa esistente è una rielaborazione intenzionale: che cosa sta alla base del concetto di naturalezza? O invece si dovrebbero ri-pensare radicalmente questi concetti?
Da studiosa di antropologia e da essere umano non posso che vivere un profondo senso di disagio esistenziale, ma d'altronde - da bimba di 🧡Geertz 🧡- penso alla mission dell’antropologo:
«Con non poco successo abbiamo cercato di scuotere il mondo, tirando da sotto i piedi i tappeti, rovesciando tavolini da té, facendo esplodere petardi. Compito di altri è stato di rassicurare, il nostro quello di destabilizzare. Fra australopitechi, bricconi, consonanti avulsive, megaliti noi siamo insomma venditori ambulanti di anomalie, spacciatori di stranezze, mercanti di stupore».
Bibliografia
Csordas T. J. C., 2003, Incorporazione e fenomenologia. culturale
Fabietti U., Antropologia.
Come si sposa la mediocrità dell esistenza con la complessità dell uomo?
Buongiorno Anonimo,
La domanda che mi hai posto è più interessante della risposta che riceverai.
Io credo che l'esistenza in sé non sia mai mediocre. Le sfide e le questioni (esempio lavoro, familia, vita sentimentale, etc.) con cui si rapporta l’essere umano sono già spinose e ricche di sfaccettature, a cui reagisce in maniera diversificata.
Secondo me, la “mediocrità dell’esistenza” non si unirà mai con la "complessità dell'uomo", perché questa condizione è già presente in essere.
Non so se la mia risposta è stata delucidante. Vorrei chiederti, invece, cosa intendi per "complessità" e "mediocrità"?
| Le strade catanesi |
Sono ferma ad osservare, con anomalo interesse, “la crepa”(scusate, ma il mio vocabolario è sprovvisto di certi tecnicismi) nella strada, conosciuta dai miei concittadini come l’opera di “cattiva amministrazione”... sono in Sicilia, nel regno dell’immobilitismo, ma vi risparmio la filippica, vetusta quanto il complesso Stonehengiano…
Questa "crepa" mi permette di collegarmi al contenuto di una lezione di Geografia in Università, sul ruolo dell’essere umano nel modificare il paesaggio... realizzando che anche la natura procede in questa direzione, intervenendo nella trasformazione degli spazi. Anche se aldilà della bellezza visiva: mi chiedo cosa vuole comunicare questa ri-appropriazione?
| Madonne e serendipità antropologiche |
INCIPIT:
L'esaltazione delle virtù della distanza che l'esteriorità procura ha senza dubbio la funzione di trasformare in una scelta epistemologica la situazione oggettiva dell'etnologo che fa sì che egli percepisca ogni realtà e ogni pratica, inclusa la propria, come uno spettacolo.
~ Pierre Bourdieu
È un pomeriggio di fine marzo e cammino per le vie del paese di provincia. In strada non c’è nessuno, eccetto il rumore di macchine e di voci lontane… saranno le signore che si aggiornano sulle famiglie, raccontandosi le novità, cosa comune in paese. La mia attenzione viene catturata dagli idoli, dai santi e dalle “madonne chiuse in una teca”, come canta Levante, che si trovano incastonati nei muri. Mi fermo così ad osservare la religiosità che sopravvive in queste zone. È un sentimento religioso che si esprime, essenzialmente, nella materialità delle immagini oramai usurate dal tempo.
Ed ecco che un abitante del luogo si ferma e inizia ad osservarmi con una curiosità indagatrice... se fossi stata un artefatto primitivo, visionato da un trafficante d’arte occidentale di fine Ottocento, sarei passata inosservata. Inizio a insospettirmi, ma dopo un po’ esordisce: “Ma chi c’avi?” (“Cos’ha?”), riferendosi alla teca che sto fotografando. E si mette insieme a me a contemplarla, affermando: “Non ci fici mai casu” (“Non mi ero mai accorto”). Tiro un sospiro di sollievo, e mi ricordo che abito in Sicilia, dove l’incuriosirsi per le attività altrui è un tratto culturale dominante. Gli spiego che mi ha colpito la rappresentazione e mi congedo.
Sulla via del ritorno, inizio a riflettere sull’episodio. É evidente che la mia presenza ha comportato una “crisi” nel suo abituale schema di percezione degli spazi, sul ruolo giocato dalla vista. Ad esempio, David Le Breton in Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, al paragrafo La vista è anche apprendimento spiega che:
«alla nascita, il bambino non coglie il significato delle forme indecise, colorate e cangianti, che gli si affollano intorno; poi impara a poco a poco a discriminarle, cominciando dal volto della madre e integrando schemi di percezioni particolari che successivamente generalizza. Per riconoscere, deve conoscere […] La vista prende poco per volta lo slancio, per divenire un elemento fondamentale della sua educazione e del suo rapporto con gli altri e con il mondo (2006, 59, 63)».
La realtà è pertanto una «costruzione sociale», edificata da «un’attività che esprime significativi soggettivi (Berger, Luckmann 1966)», dove «gli occhi non sono semplici recettori rispetto alla luce e alle cose del mondo, ne sono i creatori, nella misura in cui vedere non è il calco di qualcosa di esterno ma la proiezione fuori di sé di una visione del mondo (Le Breton 2003, 68)».
E da quella domanda così sfacciata, comprendo quanto l’atto del guardare, che sembra naturale e spontaneo, é in realtà un’operazione guidata e mediata dalla cultura, nella quale si esperisce e percepisce il mondo attraverso modelli trasmessi localmente (Gusman 2013, 30). A questo punto mi chiedo da dove nasce l’esigenza di vedere il mondo attraverso una sua concentualizzazione declinata in termini di naturalità?
Bibliografia
Berger P. L., Luckmann T., 1966, The Social Construction of Reality.
Bourdieu P., 2003, Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila.
Gusman A., 2013, Sensazioni.
Le Breton D., 2013, Il sapore del mondo. Un'antropologia dei sensi.
|| in-fretta-e-furia ||
Che poi... se si osserva con quella attenzione e con quel rigore scientifico: non esiste nessuna simmetria, non esiste nessun fanatismo delle e nelle forme. I rimandi esistono solo attraverso le ricomposizioni intenzionali, attraverso un meccanismo di separazione e ricostituzione del reale.
Si dovrebbe ricordare sempre che la natura, se vogliamo parlare in questi termini, sarà sempre unica per ragioni culturali, sociali e personali.
|| L(a-scesa) ||
Una goccia sta scendendo dritta dritta verso il basso. Ne segue un'altra. Queste non sono fredde, come ci si aspetterebbe, bensì sono calde, quasi bollenti. Ne corre giù un’altra ancora, discendendo lentamente come se portasse con sé un peso. La discesa delle gocce non si arresta: è un fiume in piena.
È come se si stesse verificando la condizione della ruminazione mentale. Si presenta una macchia, che tende a espandersi e a egemonizzare, prepotente-mente, l’intero spazio. La mente viene così assaltata da costanti: le promesse infrante, le congiunzioni non pervenute, l’utopia pacifista che tarda ad arrivare, l’arresto dei sensi, la natura cattiva, le farneticazioni, gli egoismi, le megalomanie dell’ego. I pensieri scorrono e non si possono più fermare. Per quante volte si cerchi di rintracciare le origini e le cause, né l'atto di fede né lo studio speculativo sono in grado di gestire l’intero processo. Forse lo si potrebbe tollerare attraverso una spassionata ricerca, un’attività intellettuale che lenisce e acquieta quei costanti e asfissianti flussi.
«Il mondo non è un'unica fratellanza sentimentale in cui, sotto la superficie, in realtà siamo tutti uguali. Gli individui hanno prospettive diverse, formate da interessi, storie, esperienze particolari. Se questo è vero degli individui, sarebbe strano se qualcosa del genere non valesse anche per le nazioni».
Ian Buruma
Nessuno:
Proprio nessuno:
Perennemente io:
"Un antropologo può realmente creare una situazione controllata in cui provocare la sua «natura», cioè la gente che studia, per analizzare le risposte? (Piasere, L'etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia)".
|| la Malinowski di Tumblr ||
Durante il proseguire di questa vita, mi capita di incappare in bizzarre contraddizioni borghesi, di ritrovarmi a decriptare movenze e modi di fare. Se però mi fermo un attimo a pensare lucidamente e razionalmente, epurando da qualsiasi forma di emotività: la realtà è abbastanza ovvia. Non c'è bisogno di ragionamenti e di massime confuciane...
Lo so che mi insegnano che c'è sempre una motivazione o una ragione che spinge all'azione, ma io mi rifiuto. Non posso essere un'antropologa h 24.
|| lagne e vicissitudini umane ||
Certe volte vorrei astenermi dal conoscere “cose di antropologia”, perché cado nell’errore di usare la mia formazione professionale per risolvere questioni che, forse, richiederebbero altri approcci e disposizioni. In queste volte vorrei sradicare e disintegrare le metodologie e gli apparati concettuali che sostanziano il pensiero perché possono trasformarsi in una minorazione e ostacolare il processo conoscitivo.
Mi chiedo a questo punto se non sia arrivato il tempo di riflettere sistematicamente sui limiti del mestiere dell’umanista.
Guarderai il festival di Sanremo quest'anno?
Ciao Anonimo, no.
(secondo te ne vale la pena?)
Cosa accadrebbe, se un nuovo resoconto agitasse le conclusioni desunte?
| Da una questione di in(sensibilità) datata 31 dicembre |
Tutto è iniziato da una mia seccatura.
Mi trovo nella piazza centrale di una cittadina siciliana, visto che è stato organizzato il mercato locale. È un campo che ben si presta alle osservazioni culturali, alla conservazione e alla riproduzione dei rapporti sociali che la pandemia da Covid-19 sta facendo scomparire.
Nello stand dedicato ai prodotti caseari e agli insaccati, stanno venendo soddisfatte le richieste di un anziano signore. Immaginatelo con la sua coppola, con il suo pantalone grigio scuro in flanella, con la sua marcata cadenza dialettale e con il suo modo di parlare “antico”, che durante l’articolazione dei discorsi fa ricorso a proverbi e frasi tratte dalla saggezza popolare. Si trova lì per acquistare generi alimentari che, poi, consumerà in prossimità delle feste. Tra lui e il salumiere si sta instaurando una forma di dialogo confidenziale, che lo spinge a voler conoscere la storia, la provenienza e la ‘corretta’ consumazione del formaggio… forse sarà un antropologo in pensione, dato che la peculiarità del lavoro antropologico consiste nel «tormentare le persone intelligenti con domande stupide (Geertz 1988, 40)». Comunque, il salumiere risponde con professionalità ed empatia. Nel frattempo che si sta consumando lo “scambio” etnografico sul pecorino dei Nebrodi: si sta formando una lunga coda di persone.
Nonostante il forte senso di irritazione, penso alla socialità che si sta manifestando. Questa riesce a prosperare perché mi ritrovo all'interno di un ristretto contesto di provincia, con un rimo di vita meno frenetico e propizio all'incontro del prossimo. Le "minuziose" questioni che pone l'anziano sono il frutto di una consuetudine sociale, dato che:
«la condizione umana non è pensabile se non in termini di organizzazione sociale. L’apprendimento di routine, l’acquisizione di abitudini che s’incarnano nello spirito e nel corpo, dispensano gli uomini dalla necessità di riflettere prendere decisioni in ogni momento. Gran parte dei nostri comportamenti sfuggono alla rappresentazione cosciente, pur obbedendo comunque a regole, pur seguendo un modo adeguato di comportarsi in società. Il senso è incorporato e non rappresentato (Augé, Colleyn 2004, 15, 16)».
Di conseguenza, in questa epoca si delineano nuove pratiche che portano a ripensare il rapporto tra commerciante e cliente, il quale é vissuto maggiormente a livello individuale, come avviene nei market online e “anonimi”. Durante l’acquisto degli articoli, difficilmente, si manifestano le condizioni per acquisire conoscenze fornite dai produttori. Il punto, adesso, non è la svalutazione e il boicottaggio di queste iniziative, ma è necessario ripensarle in chiave critico-sociale:
«Non credo che il comfort vada demonizzato: è stato desiderato e inseguito dall’umanità perché genera innegabili piacevolezze. Interrogare la comodità ha senso perché il processo che l’ha generata è stato sottratto a un esame approfondito sulle conseguenze sensoriali della diffusione degli attuali regimi di consumo. L’umanità contemporanea è stata abituata a non avere dubbi sul fatto che la storia tecnica sia stata un’evoluzione positiva: il passato rappresenta ciò che è arretrato, primitivo, fondato sull’ignoranza; il presente adopera le conoscenze accumulate per migliorare la vita e risolvere innumerevoli disagi; il futuro è teso verso un ulteriore perfezionamento scientifico e tecnologico che spazzerà via, definitivamente le rimanenti limitazioni al benessere umano. Con ossessionante monotonia, e in maniera più o meno subdola, implicita, acritica, mistificata, i promotori dell’ipertecnologia ci inducono a credere che il tragitto esistenziale umano, nel corso della storia, e in particolare nella sua fase moderna e contemporanea, sia da apprezzare come benefico, giusto, vantaggioso, morale, utile (Boni 2014)».
Dunque, queste pratiche che circolano nella nostra esistenza: che ripercussioni hanno con il passare del tempo, in particolare sulla relazione umana? Come mai ci stanno spingendo ad una sua disassuefazione?
Bibliografia
Augé M., Colleyn J.P., 2004, L’antropologia del mondo contemporaneo.
Boni S., 2014, Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze.
Geertz C., 1988, Interpretazione di culture.
| Patine e saponi |
Se c’è una cosa che ho imparato frequentando questa esistenza: è la capacità posseduta dall'essere umano nel trovare i difetti e le storture altrui per sentirsi migliore. Ho realizzato questo nel momento in cui ho osservato sotto una luce diversa le pagine Instagram che si occupano di “svelare” le falle nella rappresentazione estetica di instagram-models, beauty-stars e influencers.
Da sempre le culture sono interessate a forgiare i corpi in determinate forme ed estetiche. Ad esempio, Francesco Remotti in Cultura sul corpo analizza in maniera dettagliata le pratiche di cura e controllo sui corpi, dato che
«l’essere umano può / deve essere plasmato; […] essendo [...] una sostanza malleabile, simile a “cera”, esso richiede un intervento che gli dia “forma” e “figura” […] l’intervento plasmatore, reso necessario dalla mancanza di forma originaria, è in quanto tale di tipo estetico: ha a che fare immediatamente con la “bellezza” (2015, 5)».
Queste pagine sono solite accostare il termine ‘bellezza’ a quello di 'falso'. Reinventano l’acqua calda in buona sostanza, ma il punto non è questo. Ciò che mi incuriosisce è la loro organizzazione, 'mission’ e leitmotiv.
Il meccanismo di funzionamento consiste nel mostrare il prima/dopo, la fotopostata/realtà, il ieri/oggi di un soggetto (nella maggior parte dei casi si tratta di donne) per far realizzare che tutto è un artefatto, creato dagli interventi chirurgici, dai giochi di luci, dalle angolazioni e da Photoshop.
(immagini a scopo illustrativo)
La comunicazione adottata da queste pagine è d’impatto, in quanto si affidano ad un silenzioso gioco di potere insito nella riproduzione dell'immagine dell'altro. Dal punto di vista teorico e antropologico, un’immagine non è «soltanto un prodotto di un determinato mezzo», è anche un «prodotto del nostro io, nel quale generiamo immagini personali (sogni, immaginazione e percezioni) che interagiscono con le altre immagini del mondo visibile (Belting 2001, 10)» ed inoltre le immagini dipendono da due «atti simbolici»: «l’atto della fabbricazione e l’atto della percezione (Belting 2001, 11)». Da queste basi, lo spettatore viene, inconsapevolmente, guidato a osservare e sentire l'altro attraverso le sue finzioni, i suoi "difetti" e le sue "deformazioni ", che vengono evidenziate e cerchiate. Ciò comporta una demonizzazione dell'immagine dell'altro, come mostrano i commenti lasciati sotto ai post.
Qualcuno potrebbe risentirsi dalle mie posizioni sostenendo che queste pagine hanno un potere “salvifico”, in quanto ci ricordano che la perfezione non appartiene a noi umani; che la realtà è un’altra oppure che non vogliono screditare quel soggetto rappresentato. Certo è nobile questa operazione di smascheramento e di messa in critica degli idealtipi estetici propinati dal mio contesto culturale, ma a questo punto mi chiedo: 1) come mai il discorso di accettazione personale deve passare attraverso la deturpazione dell’immagine altrui?; 2) perchè non pensare di creare attività volte alla conoscenza delle ragioni e delle motivazioni che spingono i soggetti a ricorrere a quella presentazione?
Bibliografia
Belting H., 2001, Antropologia delle immagini
Eco U., 2004, Storia della bellezza
Remotti F., 2015, Cultura sul corpo
|| 21 dicembre, medicamenti
Se l’esistenza si sostanzia nel regime del relativismo, della peculiarità e della differenza: cosa spinge i soggetti a individuare il pattern comportamentale? Forse è un atteggiamento che si origina per fuggire da eventuali deformazioni e storture di contesto; che insorge a seguito della percezione degli adombramenti, dato che l’esistenza è portata alla dissoluzione degli enigmi; oppure è da ricollegare all'inconsapevole legge regolatrice dei rapporti tra umani, che vuole i benefici superiori ai rischi.
Cosa resterebbe, però, della spontaneità se tutto viene lasciato all’economia, alla tecnica e al calcolo? L’esistenza dovrebbe silenziare la rigida struttura che la governa, per decidere di lasciarsi trasportare dall'inspiegabilitá e dall'insensatezza.
Laura: Più un ragazzo mi piace più mi spaventa.
Jérôme: Vuoi dire che hai paura di non resistergli?
Laura: No. Io. No. È più complicato di così. Un ragazzo non mi piace tanto perché é bello. Se un ragazzo è gentile vado a spasso con lui per esempio se mi annoio. Se mi annoio chiunque mi sta vicino ho l’impressione di amarlo. Quel che mi secca é che sempre prima o poi lui si dà importanza dice in giro: “È innamorata di me”. Si mette a fare il pascià. Allora è finita.
Le genou de Claire (1970) Éric Rohmer
Let me know if I’ve got a chance of ever finding true romance. Let me know how long I’ll wait to meet the guy who’ll share my fate
Masculin, féminin (1966) Jean-Luc Godard
|| 7 dicembre
Stavo pensando agli intellettuali di sinistra (che tanto sottolineo) o ai rappresentati di tale ideologia che partono dal presupposto che ciò che stanno facendo é virtuoso e moralmente valido perché "é di sinistra". Come si è arrivati ad accettare che quello che fanno e pensano é socialmente e culturalmente valido? Questo non é un attacco, quanto più una riflessione ad alta voce sull'impostazione delle categorie culturali e politiche del mio contesto sociale.
Mi chiedo, se questi netti posiziona-menti mi stanno facendo tralasciare possibilità, sperimentazioni o percorsi interpretativi.
Gente che usa termini del gerco antropologico in maniera decisamente poco consona >
Nessuno
Proprio nessuno
Io:
apriti un manuale, fratellí.
...solo io "sclero" a vuoto?
sono una ex-studentessa di antropologia basic, i miei pArTnEr intellettuali usano una metafora evocativa:
| Se l’acqua calda venisse teorizzata |
Fino ad un certo punto della mia esistenza ho ritenuto che le estetiche, le mode e le tendenze si dividessero in due categorie: quelle della ‘massa’ e quelle ‘ricercate’. Con la frequentazione e l’osservazione dei contesti virtuali (odio questa parola ma è per intenderci) ho mutato di pensiero. Inizio a guardare la distinzione in maniera più critica, affermando che essa è semplice-mente un artificio culturale e che non tiene in considerazione la realtà odierna.
In tempi recenti, mi sono approcciata a nuovi universi (cinema, musica, letteratura) ritenendo che alcuni stili fossero di una cerchia “ristretta”, “unici” e di difficile accesso, ma quando ho iniziato a cercarli online: è emersa una solida rete di proseliti che si nutre ed alimenta questi contenuti (blog, video su Youtube, playlist).
Sicuramente verrò tacciata di ingenuità, ma credo che fino a pochi anni fa non era così.
C’è un preciso momento che ha portato all’omogeneizzazione delle estetiche: l’avvento di internet, che ha permesso di andare oltre il concetto di 'nicchia'. Ad “aggravare” ulteriormente la situazione interviene quel fastidioso e invasivo meccanismo di personalizzazione dei contenuti: se inizio a ‘likkare’ i post dedicati ai meme sui gattini mi piazzano tutti gli account e i profili correlati, andando a radicalizzare la mia identità e "ad aggiungerla" ad altre persone per quel principio di "in comune" o "nella mia cerchia".
In questo scenario, tutto può trasformarsi in comunità di seguaci e le demarcazioni saltano grazie agli hashtags o agli "account simili ".
A questo punto il rapporto tra oggetto e fruitore dovrebbe essere guardato con più sincerità e onestà. Quanto a me, dovrei togliere quell’aura di misticismo che aleggia intorno a certe forme "d'arte".
| Memorie dal campo(santo) |
Da quando nonno è andato via frequento più spesso il cimitero. Prima ero solita andarci solo per la ricorrenza istituzionale, nei primi di novembre.
A ventiquattro anni, mi approccio a questo luogo con una mentalità diversa. Da una parte qui riposano i miei antenati, gli amici di famiglia e le persone che non ho conosciuto, dall'altra sono occasioni per riflettere su tematiche di ordine antropologico e sociale.
La morte e il dolore sono due concetti centrali nello studio dell’uomo. Ad esempio, Michelangelo Giampaoli nel saggio Paris. Una capitale alle porte della città dei morti studia il Pèere-Lachaise di Parigi. Si tratta del cimitero più conosciuto e visitato al mondo, dove «quotidianamente entrano ed escono differenti flussi di persone, soprattutto turisti data la presenza di monumenti in onore di persone famose (2011)», per citare qualche nome Oscar Wilde, Édith Piaf, Jim Morrison. Nel cimitero sono presenti pratiche a scopo commemorativo che economico: «all’interno del Pére-Lachaise domina un sistema di economia informale che ruota attorno» a bar, ristoranti o a coloro che si propongono di fare da «guida» turistica per addentrarsi nelle vie del cimitero.
Giugendo a me. Nel piccolo cimitero di paese che frequento sicuramente non possono verificarsi queste condizioni, dato lo scarso numero di fequentatori. Ciò che invece rintraccio è il particolare legame che si instaura tra chi resta e chi se ne va. È un legame che nasce dalla frequentazione e dal sentimento empatico verso le sofferenze altrui. I vivi alimentano l’esistenza di una persona, seppur non sia più presente a livello fisico. Ho sperimentato anch'io questa condizione.
Nel corridoio che porta alla tomba dei miei nonni paterni, si trova una ragazza a cui mia madre faceva il doposcuola. Ho iniziato ad affezionarmi a lei e alla sua storia senza averla mai conosciuta, "instaurando" un ricordo-immagine di lei. Comprendo solo adesso quanto questo luogo sia sottovalutato...
«L’evento-morte, la presenza del cadavere non è soltanto distruzione e crisi del senso ma, per certi versi, è all’origine della costruzione del significato dell’esistenza (Favole, Lingi 2004)».
In questi luoghi i vivi danno continuità alle esistenze interrotte. I frequentatori puliscono, ordinano e impreziosiscono le lapidi, gli altari e nel frattempo parlano e intavolano discorsi tra di loro che tra chi “sta lì”, riattualizzando così le persone e le loro storie:
«Se da un lato il morire è un processo disgregativo ed entropico, che introduce caos e disordine […] dall'altro – mediante i significati simbolici che riceve secondo modalità transculturalmente specifiche – esso genera forme sofisticate di organizzazione, ordina luoghi, connota spazi, costruisce cosmologie, orienta comportamenti: riannoda fili di senso sulla natura stessa della vita (2004)».
Bibliografia
Favole A., Ligi G., 2004, L'antropologia e lo studio della morte: credenze, riti, luoghi, corpi, politiche.
Giampaoli M., 2011, Paris. Una capitale alle porte della città dei morti, in Antropologi in città (a cura di Stefano Allovio).
Movi-menti
L'emozione è un fenomeno sociale che deriva dall’interpretazione e dalla valutazione di uno stimolo, ossia da un processo di attribuzione di senso e valore. Le emozioni sono quindi considerate come modelli di esperienza acquisiti, costituiti da prescrizioni e apprendimenti sociali, storicamente situati e strutturati sulla base del sistema di credenze, dell’ordine morale, delle norme sociali e del linguaggio, propri di una particolare comunità e variabili come qualsiasi altro fenomeno culturale.
L'antropologia mi ha insegnato ad approcciarmi alle persone con attenzione e cura, per allontanare l'attidudine critico-distruttiva che mi ha "donato" il mio contesto culturale e religioso. Eppure fallisco, cadendo nella trappola delle emozioni.
"Ascolta il corpo". "Mettiti in sintonia con le tue emozioni". "Cosa senti?", sto già figurando la scena. I luminari della psiche e delle emozioni consiglierebbero una sana conversazione con il sé ed il complesso emotivo per far emergere luci e ombre, costitutive della vita. So che hanno ragione, ma qualcosa mi impedisce di prendere seria-mente in considerazione queste esort(azioni). E finisco per comprimere ed osservare con freddezza ciò che fino ad un momento fa mi colpiva, realizzando però che questa non è la via da perseguire...
usare "il proprio il corpo come strumento privilegiato di ricerca"
Comprendere vuol dire ridurre un tipo di realtà a un altro; che la realtà vera non è mai la più manifesta: e che la natura del vero traspare già nella cura che mette a nascondersi.
C. Lévi-Strauss, Tristi Tropici.
Piero: Buonasera.
Vittoria: Sera.
Piero: Cosa stavi scrivendo?
Vittoria: Traduco un po' di roba dallo spagnolo.
Piero: Ah! E come si dice in spagnolo che vorrei salire da te?
Vittoria: Si dice che non puoi. Brutta lingua lo spagnolo, eh.
Piero: Io non capisco perché dobbiamo perdere il tempo così.
Vittoria: Neanch'io.
L'Eclisse, 1962, Michelangelo Antonioni
| (Mal)funziona-menti |
Scrivo questo post per prendermi del tempo, perché ho necessità di ordinare il complesso emotivo nato in seguito al maltempo che sta distruggendo la città in cui sono nata e cresciuta.
È dal 25 ottobre che Catania e i territori limitrofi sono investiti da ciò che i mezzi di comunicazione di massa hanno chiamato “stato di calamità”, “ci aspettano altre ore complicate”, “nubifragio” o “disastro maltempo”. Parole ed espressioni che cercano di riassumere il profondo disagio che sta vivendo il territorio.
Penso a quanto sia automatico trovare qualcuno a cui addossare la colpa per quello che sta accadendo. Si potrebbe incolpare X, perché non ha prestato attenzione alle previsioni del meteo; si potrebbe accusare Y, perché costruisce abusivamente; o forse Z che non si è occupato a sufficienza della manutenzione fognaria del comune. Mi chiedo che senso ha costruire una narrazione che insista sulle cause anziché sugli sviluppi, primeggiando il processo da fare per le insufficienze e per i disservizi?
Lo so che la mia realtà è caratterizzata da “problemi strutturali" e “carenze”. Ne ho preso coscienza quando, nel lontano 2018, ho visto la neve per la prima volta a Bologna. La neve aveva invaso i portici e il parco vicino casa, e sinceramente avevo pensato al peggio. Nel giro di una manciata di minuti però si era presentato un camion spazzaneve e tutto era ritornato alla normalità.
Non voglio modulare i miei pensieri attraverso il divario nord-sud, infatti questa situazione che sto vivendo non ha solo (ri)-portato a galla i limiti e le ristrettezze di contesto, ma anche tutto il sudiciume nato dalla noncuranza degli attori sociali. E tutto questo mi spinge a ragionare su quanto sia difficile ‘far funzionare le cose’. Come si può pensare di ‘far funzionare le cose’ se si vive in un regime del rimandare o della presa di coscienza posticipata?
Curare una città non dovrebbe essere una competenza che rientra nelle skills degli ingegneri o dei tecnici, bensì dovrebbe essere un ambito co-curato, insieme alla partecipazione degli umanisti e degli attori sociali. Per ‘curare la città’ ci dovrebbero essere delle iniziative dal basso, pensate per normalizzare la cura degli ambienti collettivi, come se fossero degli spazi domestici.
Mi spiego meglio.
Noto che c’è una ‘contraddizione’ tra i miei concittadini, in quanto da una lato sacralizzano gli spazi di casa, che vengono organizzati in piccole bomboniere; dall’altro però agli spazi pubblici non vengono rivolte le stesse attenzioni.
Le persone non si dovrebbero educare a campagne promozionali, perché la gente che viene intercettata è sempre poca o non partecipa perché nutre indifferenza verso quelle attività. Per educare alla cura, si dovrebbero conoscere e osservare le abitudini degli attori sociali, per elaborare ‘risposte di contesto’ che si avvicinano alle pratiche quotidiane. Infatti, la letteratura scientifica mostra che nessuno cambiamento è effettivo se ci sono imposizioni. Per cui, la normalizzazione della cura degli ambienti condivisi sarà, forse, attuabile se si originano risposte che partano dall’inclusione e dal coinvolgimento degli attori sociali…
Riconosco che le mie parole e i miei pensieri sono superflui, perché penso alle vite distrutte o ai “sacrifici di una vita” che si sono azzerati, e dunque dovrei semplicemente ascoltare e interrompere questa farneticazione idealista. Ma in cuor mio so che queste non sono “farneticazioni”, ma il prodotto della mia formazione universitaria, che mi ha insegnato a capire che contributo posso dare alla realtà a cui appartengo.
giustificazioni\farneticazioni\spiegazioni.
Vivere ed essere un (bravo) cittadino in un pueblo trinacriese:
- Da ripetere sempre a se stessi: " É colpa dello stato". / "Ma quale Stato? "/ " ...lo stato!";
- Né a X né a Y né a Z sarà mai mostrata fedeltà;
- Osserva individuo 1, individuo 2, invididuo 3, casualmente sono gentili e premurosi, ma lasciano strani santini autorappresentativi. "Ma che vorranno dire, ah?";
- Guarda un po', sta 'sdilluviando', c'è la tempesta!? Destino è;
- Favori e agevolazioni, certo, ma con le penne degli altri;
- "Civiltá, annegamento dei valori e dei principi", "E che vuoi da me, ah?";
- Il colore da preferire è il bianco, un po' come il nero sta bene su tutto;
- "Immobilitismo, astensionismo, qualunquismo. Figli dello stesso padre sono, padre bastardo, lo so"... "Ma tanto che posso fare?". "Io mani legate ho";
- "Come dicevano 'l'antichi' "? / "Mors tua vita mea";
- "Io rido a pensare queste cose, ma piango".
Esercizio per casa, leggi il passo precedente come se fosse un monologo recitato da "il Dottore" di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.